La sfida democratica di abolire i test di accesso all’università

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E’ da un quindicennio che moltissimi atenei italiani hanno adottato il numero chiuso o programmato per l’accesso ad alcune facoltà, in particolare quelle medico-veterinarie ed infermieristiche, ma questa pratica è andata estendendosi gradualmente a molti altri corsi di laurea.
Dalla legge n. 264/1999 ad oggi, infatti, il 57% dei corsi di laurea in Italia prevede test di accesso per l’iscrizione. Come se non bastasse il Decreto Ministeriale 30 gennaio 2013 n. 47, il cosiddetto decreto AVA, ne ha inasprito il carattere selettivo modificando i requisiti minimi.
In verità, come dimostra un’ampia letteratura e anche alcune sentenze della magistratura amministrativa, i test di accesso hanno spesso assai poca pertinenza con il futuro piano di studi degli aspiranti iscritti o ce l’hanno troppa, per cui si comprende poco che senso abbia, per accertare l’attitudine di un futuro medico, proporre la soluzione di un “giallo” o come sia possibile, per un adolescente appena uscito da un liceo rispondere a complessi quesiti di neurologia o di anatomia animale.
Gli effetti di queste scelte sono abbastanza evidenti: un numero assai rilevante di studenti ripiegano verso facoltà dove non sono previsti test di accesso o si iscrivono presso atenei stranieri o, peggio, rinunciano agli studi. Senza contare il fiorente mercato di corsi preparatori, spesso assai costosi, che si è sviluppato attorno ai test d’accesso e che ogni anno rappresentano un notevole esborso, spesso anche inutile, per tantissime famiglie.
In buona sostanza soltanto gli studenti che appartengono a famiglie dotate di sufficienti risorse economiche hanno l’opportunità di superare o di aggirare i test d’ingresso ed accedere così alle facoltà desiderate. Per gli altri o il ripiego verso facoltà poco desiderate o la rinuncia.
Tutto ciò rappresenta, nei fatti, un evidente vulnus al diritto allo studio costituzionalmente garantito (artt. 3, 33 e 34 e 97).
D’altro canto appaiono ormai superate le motivazioni che spinsero il legislatore ad introdurre i test d’accesso: da un lato si voleva porre rimedio al presunto sovraffollamento delle facoltà universitarie ed alla mancanza di spazi, attrezzature e strumenti didattici e laboratoriali adeguati ad una formazione moderna ed in linea con gli standard europei e dall’altra evitare il fenomeno della disoccupazione intellettuale determinata dal surplus di laureati rispetto alle capacità del mercato del lavoro di assorbirli.
I dati ci consegnano, invece, una realtà assai diversa: l’Italia è il paese che conta meno laureati nella fascia d’età 30-34 anni (il 20%) rispetto alla media europea (32%). Un dato ben lontano dagli obiettivi fissati dalla UE per il prossimo decennio che punta ad una soglia minima del 40% di laureati. Inoltre, il numero dei laureati italiani è calato anche rispetto al decennio precedente: un buon 40% lascia gli studi senza avere conseguito la laurea e sono ben il 12% le cosiddette matricole inattive, vale a dire studenti del primo anno che non sostengono alcun esame e non conseguono alcun credito. Sono questi i due dati che il CNVSU indica come i fattori più critici del nostro sistema universitario.
Viviamo dunque il paradosso di essere il paese con la percentuale più bassa di laureati e che, nello stesso tempo espelle risorse umane dal suo sistema formativo. Un sistema, inoltre, che risulta essere ulteriormente impoverito dalla ripresa dell’emigrazione intellettuale che si registra nell’ultimo quinquennio.
Una dinamica che sta provocando effetti disastrosi sul livello di competitività del Paese che oggi soffre proprio la mancanza di risorse umane qualificate e subisce, anche su questo terreno, la forte concorrenza di altri paesi assai più dinamici e ricchi di opportunità del nostro.
Alla luce di tutto ciò non si comprende, dunque, per quale ragione si debba continuare a mantenere in vita uno strumento dannoso al nostro sistema formativo perché provoca la dispersione di preziose risorse umane frustrando le speranze di una parte importante delle giovani generazioni e che, inoltre, lede il diritto allo studio e non promuove effettivamente il merito, anzi.
Sui test di ammissione pende, infatti, il rischio di censura dal parte della Consulta su ricorso del Consiglio di Stato del1’8 giugno 2012, nel quale i giudici amministrativi hanno appunto osservato che l’ammissione ai corsi di laurea non dipende dal merito del candidato, ma da fattori casuali e del tutto aleatori. Altre sentenze in questo senso sono state emesse dal TAR del Lazio tra dicembre 2013 e gennaio 2014.
Mi sembrano dunque maturi i tempi, anche alla luce delle dichiarazioni del nuovo Ministro della P.I. Stefania Giannini, che si pervenga ad un superamento dei test di accesso.
Il merito può e deve essere valorizzato attraverso un sistema di selezione da individuare nel percorso di studi e non nell’accesso.
In questo modo è lo stesso diritto allo studio a promuovere il merito.
Per questi motivi ho presentato una proposta di legge che propone il superamento dei test di ammissione in tutte le facoltà e la loro sostituzione con un sistema di quote minime di esami da superare per tutti gli anni di corso di laurea.
In questo modo il sistema potrà selezionare davvero i più capaci e meritevoli e le università potranno programmare con efficacia la propria offerta formativa.
Sono convinta che solo in questo modo sarà possibile vincere la sfida per avere un sistema paese più competitivo e nello stesso tempo garantire alle nostre giovani generazioni una effettiva parità di opportunità nel costruire il proprio futuro.
Una sfida democratica che credo competa proprio all’Italia, il paese che per primo inventò l’Università in Europa.
Pubblicato su Unità.com 3 marzo 2014
http://mediterraneo.comunita.unita.it/2014/03/03/abolire-i-test-di-accesso-all%E2%80%99universita/

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