A proposito di povertà e di reddito minimo

Reddito minimo garantito
(Una risposta agli imbecilli che definiscono il reddito di cittadinanza una imbecillità)
Nel modello di produzione fordista che ha caratterizzato tutto il Novecento si accedeva a un lavoro che prevedeva prestazioni a tempo “indeterminato” con la garanzia mensile di un salario.
Lavoro e reddito, dunque, erano strettamente connessi tra loro. Lo stesso sistema di welfare si legava, dunque, al lavoro, per cui bisognava garantire al lavoratore licenziato un reddito per il tempo necessario, pensato comunque come breve, a trovare un’altra occupazione. In quel sistema di welfare il nesso che si determinava tra il meccanismo produttivo e il mondo del lavoro consentiva di acquisire attraverso il lavoro le condizioni materiali per una esistenza dignitosa con pienezza di diritti.
Il lavoro era la porta di accesso al regime delle tutele, attraverso il lavoro si acquisiva la dignità che compete ad ogni persona. Quel modello sociale oggi è scosso dalle fondamenta, come dimostrano i dati fin qui presentati, Il lavoro ha perso centralità e ‘rispetto’; è diventato precario, occasionale, flessibile; non è più in grado di garantire il nesso tra reddito e vita dignitosa.
L’ ‘onore perduto del lavoro’ rende chiaro che quel nesso va ricostituito attraverso altre forme di garanzia di reddito, in tutti quei i casi in cui la mancanza, la precarietà e la flessibilità del lavoro non consentono il raggiungimento dei livelli minimi di vita dignitosa, con una impossibilità di accesso, per un numero sempre più ampio di persone, ad una serie di diritti fondamentali, quali: il diritto all’abitare – a partire dal diritto alla casa -, il diritto alla mobilità, alla salute, il diritto al sapere; diritti, questi, senza i quali non è possibile godere di una piena cittadinanza.
Date queste premesse, si ritiene non più prorogabile l’introduzione anche in Italia di una forma di retribuzione sociale che, insieme ad una riforma complessiva degli ammortizzatori sociali, ridefinisca il sistema del welfare nel nostro Paese, adeguandolo ai mutati bisogni. La parola chiave diventa universalismo: il welfare che non sia universale non è welfare ma è volano di una spesa pubblica assistenziale che interpreta lo Stato come centro dispensatore di favori . Milioni di persone restano fuori dal Welfare italiano: troppo corporativo, frammentato, assistenziale, clientelare, burocratico, a rischio di abusi e inefficienze e perciò profondamente iniquo. Del resto già nel 1997 i lavori della “Commissione Onofri” (Commissione per l’analisi delle compatibilità macroeconomiche della spesa sociale) segnalò l’urgenza di una riforma in senso universale del Welfare per superare l’assenza «di uno schema di reddito minimo per chi è totalmente sprovvisto di mezzi», vera «grande anomalia della situazione italiana» rispetto al resto d’Europa.
Nell’Italia delle disoccupazione galoppante e della povertà familiare (e in particolare minorile) in aumento, continua a mancare sia una indennità di disoccupazione davvero universale per tutti coloro che perdono il lavoro, sia una garanzia di reddito, di nuovo universale e non riservata solo a determinati gruppi, o attuata solo in qualche comune, per coloro che hanno perso il diritto all’indennità, o non lo hanno mai acquisito, e sono poveri sia come individui che come membri di una famiglia.
Di conseguenza, nel paese delle mille categorie frammentate c’è sempre qualcuno che rimane senza alcuna protezione, mentre qualcun altro può vantare diritti acquisiti. Come già detto l’Unione Europea ha ripetutamente richiamato l’Italia per la sua inadempienza nell’istituire una garanzia di reddito per chi si trova in povertà, e non solo. Questa, è una delle riforme che la UE si aspetta da noi, ma di cui non si parla e tantomeno la si mette in agenda. Ce lo chiede l’Europa! Il reddito minimo è una realtà così ovvia in Europa che non può proprio per questo essere considerata un’utopia. E’ l’Italia l’eccezione, non l’Europa

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